Opere politiche e filosofiche

Opere politiche e filosofiche

È risaputo che fu l’ascesa di Cesare, insieme al dolore per la morte della figlia Tullia, ad allontanare temporaneamente Marco Tullio Cicerone dalla vita politica: tra il 46 e il 44 a.C., nella tranquillità delle sue ville, compose un notevole corpus di opere filosofiche, quasi a voler rimarcare il passaggio coatto dal negotium all’otium. Le due opere raccolte in questo volume hanno un ruolo centrale: nei Termini estremi del bene e del male Cicerone immagina una serie di dialoghi volti a individuare il «sommo bene», entrando nel vivo del problema morale, quello che al suo spirito pratico appare come il punto essenziale di tutta la filosofia. Dopo una lunga disamina dei concetti di piacere, dolore e felicità, secondo le principali teorie della filosofia greca, il libro si attesta su una posizione stoica, pur con influenze peripatetiche e accademiche: la virtù è condizione necessaria se non sufficiente per raggiungere la massima felicità. Le Discussioni tusculane completano questo percorso: qui la virtù è messa di fronte alla realtà della vita che sconvolge l’anima con turbamenti d’ogni specie, mettendola alla prova. Così come in seguito Virgilio, Orazio e Ovidio si faranno carico di raccogliere l’eredità della letteratura greca, Cicerone infonde la tradizione filosofica greca nella cultura latina, ponendola al vaglio del giusto e dell’utile per la società romana e usando filosoficamente le sue capacità retoriche e oratorie. Cicerone è insomma il massimo esponente latino di quella che Hegel chiamava «filosofia popolare»: non l’opera rivoluzionaria che sposta in avanti le possibilità della speculazione, ma la rassegna filosofica, la dissertazione colta che non prescinde da un pubblico, un gruppo sociale che quelle posizioni deve di volta in volta ratificare o respingere. Perché, anche nel suo otium filosofico, Cicerone si rifiuta di ragionare in termini diversi da quelli che conosce, non si allontana mai dall’orizzonte politico delle cose: la filosofia non può solo consolare, deve soprattutto servire.

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